Giornata della Memoria: ricordare anche il contributo di Rieti alla Shoah

Anche a Rieti si è celebrata, come in tutta Italia, la Giornata della Memoria; è una giornata che si celebra annualmente, un po’ per dovere istituzionale di legge, un po’ per convinzione.

La Giornata fu istituita “al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati” quindi allargando la Memoria della Shoah alla deportazione in Germania per scopo lavorativo di militari e civili non ebrei.

Da anni a Rieti la cerimonia istituzionale si concentra su questi ultimi, anche perché i deportati “per lavoro” furono 600-800mila e i deceduti 37-50mila. Più facile quindi offrire la testimonianza di eredi dei deportati sopravvissuti che degli eredi degli 8mila ebrei, quasi tutti uccisi.

Sarebbe importante però coltivare anche la memoria della sorte degli ebrei passati per questa provincia e del ruolo, non passivo, che la nostra comunità ebbe nel loro sterminio.

Ci riferiamo in particolare ai 14 ebrei, tra cui 5 bambini, deportati il 6 gennaio 1944 verso Fossoli da cui presero la via di Auschwitz dove donne, bambini ed anziani furono avviati direttamente alle camere a gas; solo uno di loro, il 30enne Leone, fu selezionato come abile al lavoro; marchiato 180042, riuscì a sopravvivere e tornò (anche a Rieti) in cerca di tracce di genitori, moglie e quattro figli da cui era stato separato sulla banchina del treno, appena scesi dal carro bestiame in cui avevano viaggiato per 5 giorni.

Nel dopoguerra sopravvisse vendendo oggetti di valore che era riuscito a nascondere ad Amatrice con l’aiuto di Emilio Santarelli (di cui sarebbe anche giusto onorare la memoria), mentre quanto portato a Rieti fu trafugato.

dalla pratica IRO (International Refugee Organization) Leone Gattegno; da archivio Arolsen, voce Elia Gattegno

“Ruolo non passivo” di questa provincia, sì. I pochi di noi che abbiano sentito parlare di questa storia, di queste vittime innocenti, sarebbero portati a pensare che quanto qui accadde fu “doloroso ma ahimè inevitabile”; che Rieti non si trovò “suo malgrado in un flusso che non poteva arrestare”. Non è così, non fu così. Al contrario, Rieti si pose sulla cresta dell’onda, prima provincia a consegnare i “propri” ebrei.

Le infami leggi razziali del 1938 avevano fatto degli ebrei degli italiani di seconda categoria, ma come italiani erano protetti dal genocidio tedesco. La svolta ci fu con la Repubblica Sociale, che a Novembre del 1943 dichiarò tutti gli ebrei come “stranieri” e, durante quella guerra, “appartenenti a nazione nemica”. Il 30 Novembre un ordine di Polizia ne chiese ai Capi della Provincia l’arresto e il concentramento. A Rieti fu immediato l’arresto delle famiglie di “ebrei stranieri” che si trovavano in domicilio coatto a Rivodutri, Leonessa, Amatrice, Borgo Velino. Non furono concentrati in un campo (quello di Granica, allora non completato, non era utilizzabile) ma in carcere, analogamente ad altre provincie.

L’aspetto che caratterizza però Rieti fu l’immediata deportazione verso Fossoli, anticamera della deportazione verso Auschwitz: le altre provincie li avevano sì concentrati (in campi, edifici, carceri) ma senza “cederli” se non da fine gennaio, quando probabilmente si giunse tra tedeschi e RSI ad un accordo (di cui non si è trovata traccia documentale ma che è nei fatti).

A.Osti Guerrazzi – Gli specialisti dell’odio; delazioni, arresti, deportazioni di ebrei italiani

Per onorare e fissare in città la memoria di quei fatti e non lasciarli solo ai libri, il 6 Gennaio dello scorso anno, 80° dell’evento, come Associazione Sabina Radicale abbiamo posto all’ingresso dell’ex carcere di Santa Scolastica, in via Terenzio Varrone, una targa che ricorda quei fatti. Alla cerimonia parteciparono Provincia, Prefettura, Diocesi.

Qualche settimana fa abbiamo segnalato agli istituti scolastici reatini l’esistenza di questa memoria “visibile”; non sappiamo se si sia riusciti a cogliere questa opportunità.

Abbiamo inoltre rivolto al Comune un’istanza perché la targa, affissa allora prima di ricevere i dovuti permessi, sia autorizzata, sperando che ciò ne faccia una riconosciuta parte della Città.

Crediamo sia importante, nel coltivare la memoria, riuscire ad innervarla con le storie delle persone che vissero quei fatti e che i segni nei luoghi compensino la sempre maggiore lontananza nel tempo.

Violenze in carcere: parlare di taser è un gioco sindacale?

Leggiamo dell’ennesimo evento critico avvenuto nel carcere di Rieti ai danni di un agente penitenziario da parte di un detenuto con problemi psichiatrici.

Siamo solidali con gli agenti e l’agente coinvolto e ci auguriamo che, a livello nazionale, si ponga mano a ciò che è dietro a queste “aggressioni”: il sovraffollamento, la carenza di organico, il trattamento non adeguato di soggetti psichiatrici.

A nostro avviso, questi episodi debbono vedere uniti e concordi tutti coloro che hanno attenzione per il mondo penitenziario, evitando strumentalizzazioni e fughe in avanti.

Ci riferiamo alla contestuale richiesta, da parte dei sindacati USPP e SAPPE, di disponibilità del taser. Richiesta che non è nuova, si ripete da anni, anche da altri sindacati (ad esempio il SiNAPPe).

Il taser è un’arma, così definito dal Vademecum di Uso della Polizia di Stato, il quale raccomanda che “l’utilizzatore deve essere prudente nell’uso del Taser, che deve essere trattato con la stessa attenzione con cui si tratta un arma da fuoco” e che segnala come “la distanza ottimaledi tiro è compresa da 2 a 5 metri, il tiro utile giunge sino a 7,5 metri circa”.

Il taser è insomma un’arma che, a distanza, consente di bloccare un individuo pericoloso senza ucciderlo (anche se il rischio di morte esiste comunque).

Ad esempio un suo opportuno uso avrebbe potuto essere per quanto accaduto a Villa Verucchio, dove per bloccare un individuo incontrollabile, il Carabiniere Masini ha invece usato la pistola uccidendolo.

Ma come si può sostenere e ripetere che il taser possa essere utile in situazioni come quella riportata, in cui addirittura l’agente è stato aggredito alle spalle? O in cui riceve un pugno “improvviso” durante una perquisizione o all’interno di un reparto di Diagnosi e Cura? Già nel 2007 il DAP (nota 00922858 del 21.3.2007 “Uso legittimo delle armi da parte del personale appartenente al Corpo di Polizia Penitenziaria”) si era espresso nettamente, muovendo dai Principi Costituzionali, sull’uso delle armi da parte della Polizia Penitenziaria; ad esempio “Per unanime e consolidato orientamento giurisprudenziale, la mera fuga è una forma di resistenza passiva, e pertanto l’uso delle armi per fermarla è sempre illegittimo” e “Nel caso di resistenza attiva con violenza sulle persone, [..] la violenza portata senza armi non giustifica mai una risposta armata”.


Questo governo non è certo insensibile ai richiami dal corpo di Polizia Penitenziaria; si pensi al sottosegretario Del Mastro Delle Vedove, la cui scorta da sempre è composta da distaccati dal Corpo.
Se da anni questa richiesta sindacale del taser – nel frattempo concesso anche ai Vigili Urbani – non viene accolta è perché quelle motivazioni del 2007 sono tutt’ora valide ed ancor più per un’arma con le caratteristiche tecniche del taser.

In quest’ottica l’insistere sul taser pare essere solo un gioco a scavalco tra le varie sigle sindacali, che è quanto di meno c’è bisogno nel mondo carcerario: occorre invece unità tra tutte le voci, perché quella di condizioni umane di detenzione è una battaglia per tutti gli attori e che si può vincere solo tutti insieme.