Morire di sciopero della fame a Rieti, fa notizia in Italia?

Finalmente, dopo tre settimane dalla morte per sciopero della fame di Stefano Bonomi, il 65enne detenuto a Rieti, il giornalista Luigi Mastrodonato – che già aveva cercato di far luce sui decessi a Rieti nella rivolta del 2020 – è riuscito a portare la vicenda ad un livello nazionale, con un dettagliato articolo sul Domani.

Ne emerge un quadro di diverse fragilità che hanno fatto sì che Stefano, nonostante l’attenzione che gli è stata dedicata all’interno dell’Istituto di Rieti, rimanesse schiacciato da una giustizia, carceraria e non, che ha tempi e procedure non misurate sulla persona.

Al di là però del caso umano e giudiziario di Stefano Bonomi, rimane l’aspetto di una schermatura mediatica che circonda i casi di sciopero della fame di detenuti e, in questo caso reatino, perfino dopo il suo esito fatale.

Infatti, a fronte del tragico evento della notte tra il 5 ed il 6 gennaio, già stupiva che l’evento fosse stato reso noto solo il 10 gennaio e solo a Viterbo (non a Rieti dove lo sciopero era avvenuto). Ma poi ancor più che esso ha stentato nel lasciar tracce sulla stampa nazionale: accenni ne abbiamo trovati solo su L’Unità e Corriere.it il 16 Gennaio, su La Stampa il 19 e poi su Avvenire il 21. Anche una dichiarazione del 13 gennaio della consigliera regionale Mattia non è riuscita ad andare oltre la cronaca di Viterbo.

Usiamo la parola “tracce” perché, prima di Luigi Mastrodonato, senza nessun approfondimento o domanda: al massimo “Un 65enne è morto dopo un lungo sciopero della fame nel carcere di Rieti. Era in attesa di giudizio ed è spirato nel reparto di medicina protetta dell’ospedale «Belcolle» di Viterbo dove era stato ricoverato coattivamente”. In un’occasione anche semplicemente enumerato come caso di suicidio. E nessun politico di livello nazionale (con la solita eccezione di Rita Bernardini) o commentatore che abbia ripreso il fatto.

Questo contrasta visibilmente non solo con i casi di suicidio (che vengono comunicati tempestivamente e spesso ricevono attenzione in cronaca nazionale e con approfondimenti) ma anche con la rilevanza nazionale assunta dai casi di infausto sciopero della fame accaduti nel 2023: basta cercare in rete “Augusta sciopero della fame” e “Torino carcere sciopero della fame”. A Torino la notizia si ebbe a livello nazionale nell’immediatezza, ad Augusta (con due decessi) pochi giorni dopo; e a seguito, dichiarazioni del Garante Nazionale, visita del Ministro Nordio.

Per le morti di Augusta, il Garante Nazionale richiamò “la necessità di quella trasparenza comunicativa che, oltre a essere doverosa per la collettività, può anche aiutare a trovare soluzioni in situazioni difficili perché non si giunga a tali inaccettabili esiti”.

Anche associare i casi di sciopero della fame, e particolarmente questo, al degrado strutturale degli istituti (che non c’è a Rieti) o al sovraffollamento (quello c’è ed è notevole, ma in regime di celle aperte) non ci sembra calzante: per quanto abbiamo letto, tutti questi scioperi della fame erano legati a “diritti” invocati dai detenuti; diritti che competevano non alla dura, inumana vita in carcere, ma alla Giustizia “esterna”: la detenuta di Torino chiedeva di vedere il figlio di 3 anni; ad Augusta una richiesta era di essere estradato per scontare la condanna in patria. Di Bonomi La Repubblica il 30, in una breve, ci dice che “protestava perché non aveva avuto accesso ai benefici di legge”.

Il Garante Nazionale, nell’occasione di Augusta, evidenziò anche il differente eco mediatico tra lo sciopero di Alfredo Cospito e quelle vicende, che avevano riguardo detenuti “ignoti”. Quando Enzo Tortora tornò a Portobello, dopo il famoso “dove eravamo rimasti?” disse “io sono qui, e lo sono anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi”; ma sopravvisse appena un anno, a ciò che aveva subito.

E così gli scioperi della fame, lotta non violenta che per legge sarà “rivolta” se la fanno in tre, in Italia si svolgono in silenzio, lontano dai riflettori; e per Stefano Bonomi anche dopo.

Un detenuto a Rieti è morto di sciopero della fame

Dopo la tragedia di Matteo, ancora qualcuno che muore di carcere: il 65enne Stefano Bonomi, detenuto a Rieti dove aveva condotto un lungo sciopero della fame, e che per la sua condizione era stato ricoverato il 3 Gennaio all’ospedale di Viterbo, il 6 mattina non ce l’ha fatta.

Non sappiamo se il ricovero sia stato coatto, come riportano le cronache viterbesi, o se si fosse convinto a farsi aiutare. Non sappiamo neppure i motivi per cui avesse intrapreso questa forma di lotta; le stesse cronache ci dicono che fosse in attesa di giudizio.

Se il suicidio di Matteo, seppur annunciato, è stato considerato “inatteso” anche dal Garante Regionale marchigiano, si potrà dire altrettanto per Stefano?

Di Matteo si sa tutto, di Stefano si saprà qualcosa? Cosa l’ha spinto, prima ancora di essere condannato, ad urlare così la sua richiesta? Era una richiesta legittima? Pare che sostenesse la protesta da molto tempo, anche interrompendola più volte; questo mostrerebbe sia la determinazione, sia la volontà di non portarla all’estrema conseguenza.

Non è la prima volta che questo accade in Italia. Ci furono episodi lo scorso maggio, in Sicilia. Allora, dopo la diffusione della notizia, il Garante nazionale delle persone detenute e private della libertà, Mauro Palma, richiamò “l’attenzione pubblica sulla necessità della completa informazione che deve fluire dagli Istituti penitenziari all’Amministrazione regionale e centrale affinché le situazioni problematiche possano essere affrontate con l’assoluta attenzione che richiedono”.

Se di Stefano Bonomi i Garanti Nazionali o Regionale dei Detenuti non conoscevano il caso (e crediamo di no, se dopo cinque giorni non ne ha data notizia) non credo sapremo mai di più, a meno che la famiglia non vorrà renderlo pubblico. Visto il tempo trascorso, immaginiamo che non ci aiuterà a capire neppure qualche sindacato della Penitenziaria, solerte nel riportare informazioni su violenze da parte di detenuti; eppure con il nuovo “Pacchetto Sicurezza” la “resistenza anche passiva agli ordini impartiti”, come quello di alimentarsi, è da considerare “reato di rivolta”. Sbagliamo a pensare che forse una utilità almeno in questa circostanza avrebbe potuto avere un Garante Comunale dei Detenuti (come spesso ripetiamo: figura a titolo gratuito istituita 10 anni fa e mai attuata)?